Prefazione di Andrea Zanzotto

Prefazione di Andrea Zanzotto

Hanno scritto …

Romano Pascutto muore l’8 aprile 1982 alla vigilia della pubblicazione di un nuovo libro che riassumeva bene i temi della sua poesia: “L’acqua, la piera, la tera” (Matteo Editore, Treviso). Allora il poeta Andrea Zanzotto scriveva la prefazione a quel libro che, oggi, qui riprodotta, ben si attaglia a descrivere la grandezza del poeta e romanziere sanstinese.


Non c’è dubbio che a Romano Pascutto va riconosciuto un vero e proprio magistero nel campo della poesia dialettale di questo dopoguerra. E ciò per la coerenza, la precisione, la riconoscibilità del suo dettato, per l’altezza morale del suo discorso che ha lontane origini ma resta sempre aperto al futuro, che è testimone di una ostinata forza etica, in grado di misurarsi, del resto, anche in una costante pratica di vita. Inoltre, se è vero che ogni poeta dialettale è colui che salva l’anima più profonda, il segreto senso dell’identità di un gruppo sociale vivente in una certa zona d’Italia, Romano Pascutto, che ha dimostrato di saper mobilitare tutte le risorse della lingua della sua terra, quella di S. Stino e della bassa Livenza, e darne un vastissimo affresco costituito di piccoli, densi quadri, ha assolto pienamente a questo compito. Anche questa raccolta, che presenta, oltre alla parte inedita che le da il nome, parecchi significativi componimenti di altri libri come il bellissimo «Tempo de brumèsteghe», corrisponde all’immagine di sé che da tempo Romano Pascutto ci offre.

Bisogna, per capire questo poeta, prendere altri punti di riferimento «geograficamente» assai vicini. Da una parte, Giacomo Noventa, dall’altra Biagio Marin. In Noventa esiste un vero e proprio assorbimento del dialetto di una località ad espressione di un io, capace a sua volta di trasferirlo ad emblema di una possibile lingua universale, che certamente si riconosce nel suo tessuto italico e veneto e «del basso Piave», ma è soprattutto «mentale», è figura di un nuovo logos a venire. In Marin, al contrario, si ha la trasfusione di ogni logos nella pura fluidità biologica della lingua, nella cui musica la storia del gruppo e la vita della terra si dissolvono, e si dissolve lo stesso io che pure si accampa in primo piano; si ha la dilatazione dal puntiforme al cosmico senza soluzione di continuità. In Pascutto invece il dialetto è sentito come fatto di ricca veicolarità, è al centro perché in esso tutto un mondo di presenze si riconosce e si esprime in una lingua né privata, né «metastorica», ma feconda per una quotidianità che, anche se si percepisce come cronaca, ha tuttavia la forte articolazione della storia nel suo farsi. In Pascutto il dialetto può diventare «lingua», aver a che fare con l’arte, perché si nobilita (per così dire) sull’onda portante del suo sentirsi e farsi interprete di un autentico «atto storico», per quanto privo di ogni enfasi.

Qualcuno potrà riconoscere in questa situazione molti elementi di quel modo del realismo che si ricollega all’aura dell’immediato dopoguerra, e che è stato tipico di una certa sinistra, di un certo populismo (e bisognerà in questa zona ricordare almeno un’altra illustre figura, Ignazio Buttitta). È pur vero che nella poesia di Pascutto si legge questo reticolo ideologico, per altro non violentemente marcato, con alcuni suoi aspetti ormai arcaici; esso però non prevarica, anzi si può dire che appaia come un effetto secondario di un modo di esistenzialità. L’essere dentro un fatto corale, e nemmeno su un palcoscenico abbastanza largo (come avviene invece a Buttitta), lo stare giorno per giorno col male e col bene dei suoi compaesani è per Pascutto la forza che tutto sostiene. In effetti i paesani, la terra, l’ambiente, costituiscono per Pascutto un tutto unico, un corpo che è minerale vegetale e umano, palpabile, a portata d’occhio e d’orecchio: infine un corpo che parla, che ha la sua dialektos e che ha una sua proiezione operativa di sopravvivenza biologica e poi di storicità umana le quali rimangono quasi reversibili.

C’è qualcosa che non perdona, nel mondo di Pascutto. Gramscianamente, la speranza costa una fatica non meno dura che il lavoro di un bracciante, è una scommessa che può essere perduta, anche se in continua riattivazione. Le illusioni sono scarse anche se v’è un impegno etico a nutrire il programma di una redenzione umana e sociale. Nell’espressione di Pascutto c’è una durezza, una spietatezza lucreziana che tarpa le ali ad ogni retorica soteriologica a buon mercato, v’è il senso del cupo enigma del mondo le cui antinomie sembrano insuperabili; ma v’è per sempre la seduzione della terra che fiorisce, della folla umana che si esalta in singoli «fiori» di personaggi e di eventi, v’è infine l’incoercibile fiorire della lingua, nella sua «individuità» che è insieme verbo e terra.

Vivi e morti convivono e con-muoiono, nella poesia di Pascutto, entro un orizzonte che è petrigno come un guscio ed è aperto come l’infinito; ma in questa Spoon River che è comunque sangue stillante di presenza attuale (anche nei momenti di vera e propria nigredo melanconica) di rado si coglie il raggelato della lapide cimiteriale: urgono i problemi della sopravvivenza con la loro atroce eppure inebriante stimolazione. Si ha qui una memoria comune in un perpetuo autocostituirsi, di cui la lingua dialettale non è tanto il supporto quanto il tessuto stesso. Il dialetto è il modo più ovvio di mediarsi ai profondi nodi vitali di ogni paesano, specie dei più umili e oppressi dall’uomo e dalla natura: ne nasce una intensissima galleria di tipi, nel loro rapportarsi ieri alle asprezze (talvolta orrori) del mondo contadino, che tuttavia resta sempre dotato di una fervida umanità, oggi alla febbrile dissoluzione, alla catastrofe che non è solo del mondo contadino, ma di tutta un’epoca travolta dalla mutazione. Ma per lo meno entro la sopravvivenza della dialektos una sopravvivenza si edifica (e per Pascutto è iscritta in essa anche la Resistenza quale fatto storico); terra e uomini entro quel minimo fortilizio conoscono certo il «doregan» e le «brumèsteghe», ma anche soli forti e primavere, come momenti del lavoro di vivere, del lavoro di «sentire» ogni essere facendosene carico: uomini uccelli piante, perfino terra e cieli gremiti pur essi di vicende fisiche e più. E quando lo vuole il pathos della polemica sociale la poesia di Pascutto non esita ad accettare i rischi di un aperto didascalismo, che tuttavia è sempre brulicante di tensioni espressionistiche.

Certo in una produzione vasta come quella di Pascutto non mancano momenti meno sostenuti, più naïfs (anche se una qualche forma di naïveté può qui non stonare), esiste un certo pericolo di ripetitività. Ma a dare l’idea delle stratificate complessità che si riscontrano nel lavoro di Pascutto può bastare anche il breve mottetto «St’acqua»: «Gera quasi scuro e sora st’acqua / passava i barconi carghi de strame / che i omeni tirava gobi da la riva / come se i se tirasse drio la bara. / Cossa resta de tanta fadiga granda, / tante lagreme e besteme fracade zò / par conpanasego co poenta amara? / Un fià de luna zala apena speciada / e po’, varda, po’ gnanca pi quela / parche, rufiana, sparisse anca ela».

Di estremo interesse sarebbe analizzare il terreno linguistico in cui si muove Pascutto, terreno che corrisponde a quello del luogo reale forse più che in qualsiasi altro caso. Non solo: si direbbe quasi che quella parlata vada incontro in modo particolare all’insieme di esigenze che generano l’opera. Tra codice-lingua e codice-stile esiste qui una forte convergenza, per non dire una sovrapponibilità. S Stino di Livenza si trova quasi all’incontro di tre zone, o meglio di tre «aure» linguistiche; vi si coniugano, sulla base dal dialetto Piave-Livenza che arriva fino al Bellunese e che si caratterizza per parecchi tratti duramente arcaici, influssi lessicali e sintattici friulani e soprattutto dolcezze che sono tipiche della Bassa e che attestano la vicinanza di Venezia. Si potrebbe dire che ognuna di queste tre componenti riesce ad avere una qualche funzionalità all’interno del dettato di Pascutto, sia dal punto di vista dei temi di riferimento sia nelle figure formali. Se ne ha un insieme di effetti tanto interessanti quanto imprevedibili, pur se certe sfumature possono essere colte, purtroppo, solo da chi abbia competenza diretta delle varie parlate della zona.

Il dettato di Pascutto è preciso e severo, ma è aperto anche al risonare della «parola in sé», e a un certo spirito ludico. Si avvale di una sintassi semplice ma non riduttiva; spesso brillanti sono le immagini che giocano entro un’ariosa, popolaresca spontaneità da proverbio. Infine, grande ricchezza ed espressività ha il lessico, che in questa zona conserva vocaboli e modi di dire altrove già scomparsi o fortemente corrotti: è una vera miniera di risorse per introdurre nelle pieghe del vissuto agricolo, nei suoi aspetti umani o tecnici, anche se si può presumere che l’erosione compiutasi in questi ultimi anni abbia ridotto notevolmente il corso di queste energie linguistiche.
Sarebbe augurabile la presentazione di un’antologia che potesse dare un’idea dell’opera di Pascutto nella sua interezza; si potrebbe allora constatare facilmente come egli sia un autore necessario per quanto riguarda l’odierna realtà veneta e certo una figura di rilevante importanza nella poesia italiana del 900.

Andrea Zanzotto

Pagina aggiornata il 16/11/2023

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